Libera-mente di Fabio Borghino

Quando il senso del dovere diventa malattia

“La mia giornata non è mai finita, perché il mio lavoro non termina quando timbro il cartellino, ma in molti casi comincia proprio in quel momento. Figli, scuola, asilo, calcio, danza, spesa, faccende domestiche, incombenze burocratiche… E potrei continuare all’infinito…”
“Mammamia”
“Hai ragione, ma non penso che questa sia diversa dalla condizione di tante mamme”
“Lo credo anch’io, ma non ti fermi mai? Non prendi mai fiato?”
“No, cioè sì, la sera a letto. Cosa intendi per: «Fermarti»?”
“Intendo un momento per te in cui respirare e staccare anche solo per qualche istante lungo la giornata la spina dei doveri, delle responsabilità e della frenesia per ricaricarti. Ti vedo scarica, senza forze e anche più irritabile ultimamente. Non puoi andare avanti così e la tua salute ne sta patendo le conseguenze. Ti vuoi bene?”
“Lo so, hai perfettamente ragione. Il guaio è che me ne rendo conto, ma non sono capace a fermarmi. Quando provo a stendermi sullo sdraio sul balcone riesco per qualche minuto e poi è come non mi sentissi a posto con la coscienza. Come non avessi il permesso di prendermi cura di me, perché i doveri vengono prima. Come se una voce interiore mi facesse sentire sbagliata e mi giudicasse negativamente. In quei momenti percepisco un’ansia sottile che mi rende impossibile rimanere ferma e mi porta ad alzarmi per fare qualcosa. 
Magari nulla di così necessario: sistemare le pieghe di un centrino, raddrizzare un quadro, ripassare il pavimento già pulito… Qualunque cosa pur di non rimanere sola con me stessa e per me stessa”.
Il processo interiore e comportamentale di questa mamma è ciò che la psicologia clinica definisce come senso del dovere ipertrofico e si correla spesso a strutture di personalità ossessive ed orientate al controllo. La capacità di riconoscere ed agire in direzione dei propri doveri rappresenta una risorsa, ma quando questa diviene un imperativo così categorico e totalizzante da sostituirsi agli affetti e alla propria persona ci si può imbattere in condizioni di sofferenza psicologica ed organica non indifferenti. Spesso è il corpo a manifestare i primi segnali di cedimento con sintomi di varia natura, indicatori di uno stato di esaurimento generalizzato che successivamente si riversano sull’umore rendendolo irritabile e depresso.
In molti casi, le origini di queste dinamiche si riscontrano in storie di vita che non hanno potuto sperimentare il dominio del piacere per le motivazioni più disparate. “Chi si ferma è perduto”, “Solo i fannulloni e i falliti si riposano”, “Fare, fare, fare”… Verità esplicitate o trasmesse senza bisogno di parole attraverso le generazioni famigliari.
Anche in condizioni di sofferenza come quelle sopra citate è possibile intervenire terapeuticamente per originare un cambiamento interno, comprendendo quanto il riposo(che si differenzia dall’ozio) sia una prerogativa biologica, oltre che giuridica, ed addirittura un rito religioso. Cominciare a dedicarsi al proprio benessere tenendo lontana la colpa e imparando ad andarsi bene come persone proprio perché ci si vuole bene potrà essere l’obiettivo finale.  
Forse l’altruismo comincia da qui…