Procediamo su un sentiero polveroso, cercando di attenuare un buio color petrolio

Il castello del sabato sera

È sera, le insegne luminose dei negozi sono spente e dai palazzi le finestre diffondono tenui fuochi fatui catodici. Le vittime del torpore da varietà subiscono, chiuse in casa, uno spettacolo che si chiama “Fantastico” ma che fantastico non è. 
Prima di uscire indosso il montgomery verde e la mia faccia invernale, quella adatta ad affrontare un freddo che fa lacrimare gli occhi e piangere le vetrine dei bar, trasudanti umori uggiosi e vapori di caffé. 
Cammino speditamente, il ritrovo con gli amici è al solito posto, vicino alla grande edicola, o meglio alla testuggine come la chiamo io, perché di sera, con le serrande chiuse e le tende da sole ritirate, sembra un’enorme tartaruga in letargo con il carapace in ferro e il cuore di carta. 
Mentre mi avvicino, riconosco le voci, le risate dei primi arrivati e la musica distorta che proviene dall’autoradio di una vecchia Ford, una Taunus familiare con il motore in folle e le portiere aperte. Il gruppo si aggrega pigramente come la sabbia di una clessidra, singole personalità che si sovrappongono, alla ricerca di un’identità, di un ruolo ancora da ricoprire. Sul muro antistante l’edicola sono affissi i manifesti mortuari, i tilèt come li chiamiamo in Piemonte, memento mori invisibili perchè distanti anni luce dai pensieri immortali degli adolescenti. 
“Allora cosa facciamo?”. “Potremmo andare a Savigliano al pub dove proiettano i video musicali” propone Pierpa. “Se il programma della serata è questo, me ne torno immediatamente a casa!” sentenzia in modo inappellabile Paola. 
Anche le altre proposte: la visione del secondo spettacolo al Politeama (Cocktail, un orrendo film con Tom Cruise), o una coppa alla gelateria di Verzuolo, quella con l’illuminazione mesta e il nome che ricorda un negozio di biancheria intima, vengono accolte con mugugni di disapprovazione, ma quando Gino pronuncia il nome della discoteca di Revello, la compagnia ammutolisce.
Il locale, che  offre una pista da ballo poco più grande di un salotto e costringe gli aspiranti ballerini a sottoporsi ad una lunga coda sovietica prima di accedere al parterre, rappresenta per noi una vera e propria sfida.
Considerando il tempo necessario al trasferimento in auto (e relativo ritorno), l’ora abbondante forzatamente persa durante l’incolonnamento all’ingresso, e tenendo conto che il coprifuoco, imposto dalle nostre famiglie, è sincronizzato su orari anni ’60 (mezzanotte meno un quarto, mezzanotte meno dieci), l’opzione discoteca risulta, di fatto, irrealizzabile.
Il sabato sera del gruppo è ancora al punto di partenza e nel medesimo istante in cui i nostri genitori c’immaginano coinvolti in attività disdicevoli, noi, paradossalmente, stiamo partecipando ad una sorta di interminabile riunione condominiale al cui ordine del giorno non c’è la scelta del colore delle ringhiere dei balconi, ma la pianificazione della solita mediocre serata.
La domenica pomeriggio poi, immancabilmente, si incontrano conoscenti che descrivono con dovizia di particolari, l’ennesima festa a cui hanno partecipato (nella tavernetta di una villa in collina con contorno di musica, ragazze vestite da ragazze, buffet dolce/salato e bevande alcoliche) o che manifestano gli effetti estranianti del jet lag, tanto era lontana l’esotica discoteca che hanno frequentato la sera prima.
Ascoltando, pur senza apparente invidia, i loro racconti, non posso che formulare un’ipotesi abbastanza ardita: alcuni diciottenni sono dotati di genitori che provengono dal futuro (il famoso viaggio spazio temporale di Marty McFly) e, per questo motivo, permettono ai loro figli gli stessi orari da metronotte che noi, negli anni 2000, concederemo ai nostri discendenti.
Ma torniamo al sabato quando la nostra rassegnazione viene inaspettatamente addolcita da parole che sembrano scaturire direttamente dai vapori della nebbia e non dalla bocca di un adolescente, una piccola frase che racchiude in sé tutta la potenza e la sfrontatezza delle idee originali: “Potremmo esplorare il castello abbandonato di Costigliole!”. A questa ultima proposta, nessuna obiezione, nessun ripensamento, si parte!
Tre auto, colme di primavera, s’inseguono senza fretta sulla strada sterrata, i fari ad ogni curva si levano al cielo, accarezzando le dolci rotondità della collina per poi tornare definitivamente orizzontali quando giungono a destinazione. 
Dopo aver sistemato le utilitarie ai bordi di una vigna, procediamo a piedi su un breve sentiero polveroso, cercando di attenuare un buio color petrolio con due torce già in deficit d’energia. 
Il castello settecentesco ci sorprende come inatteso. Incrociamo i fasci luminosi sulla sua magnifica torre rotonda e su quella più ordinaria a pianta rettangolare. Al centro spicca il grande portone d’ingresso di legno, le cui ante, efficacemente chiuse da un lucchetto, sembrano precludere ogni nostra velleità.
Una finestra al piano terra, con le grate di ferro divelte, ci indica la via di accesso, una ferita aperta violata chissà quante volte. Dentro il castello l’atmosfera è irreale. Grandi locali completamente spogli di cui è facile intuire la vecchia destinazione, si susseguono, uno dietro l’altro, senza la mediazione di corridoi. Cucina, biblioteca e sala di rappresentanza ci portano all’ingresso vero e proprio. Di fronte al portone chiuso, che adesso si mostra dall’interno, domina un elegante scalone in pietra che porta al piano superiore.
In alto le stanze sembrano più buie, le luci delle torce si duplicano riflettendosi nei vetri delle poche finestre rimaste, per poi raggiungere i nostri volti. 
Un silenzio assoluto, interrotto da una folata di vento, sottolinea un’atmosfera sinistra talmente stereotipata da apparire falsa, foriera di paure precotte e brividi da grande distribuzione.
Quando la perlustrazione sta per finire, entriamo in un’ultima stanza, intonacata e con il soffitto basso, un non-luogo inaspettato, un locale rubato ad una casa popolare contemporanea e forzatamente inserito tra i saloni del castello.
Indirizzando le torce sulla parete di destra, un gioco d’ombre irregolare ci mostra una immagine estraniante: centinaia di chiodi conficcati nel muro a partire dallo zoccolo del pavimento fino a raggiungere il soffitto. Chiodi di rame, d’acciaio, di ferro, di ottone, a gambo corto, a testa larga, arrugginiti o luccicanti che affondano nell’intonaco in modo irregolare, come spine di un istrice in muratura.
Al centro della parete, imprigionato dalla capocchia di un chiodo più lungo degli altri, biancheggia il lembo di un foglio, un triangolo di carta senza scritte, un appunto vergato con l’inchiostro simpatico, un’indicazione inesplicabile che sembra suggellare l’incomprensibilità del tutto.
L’uscita dalla stessa feritoia che ci ha introdotto poco tempo prima, mi induce a paragonare la visita del castello, al percorso delle nostre vite. Una metaforica entrata e venuta al mondo, seguita da un breve e oscuro cammino illuminato da pochi riflessi di luce e, prima dell’uscita definitiva, il contatto inatteso con il mistero e la netta sensazione di non aver capito nulla.
Rimane a distanza di anni il ricordo annebbiato di una trasgressione da oratorio, di una bravata piena di interrogativi, di un’innocente divagazione vissuta in giorni in cui il futuro pareva infinito e il sabato sera era l’unico problema che ci impensieriva.
gianni audisio