Fermo immagine di Alberto Abbà

Il telefono del vento

Una cabina telefonica nel mezzo di un giardino. Un vecchio telefono nero, scollegato dal mondo reale, con un filo penzolante che non arriva da nessuna parte. Non servono gettoni, né linee, ma solo il vento.
Intorno la cura, quella che aiuta anche a lenire le ferite. Nell’erba tagliata, nei fiori di stagione, nella manutenzione di tutto ciò che serve. In chi non giudica un gesto.
Nacque da un giapponese l’idea, per restare in contatto con un cugino morto di cancro.
Poi iniziò un pellegrinaggio. Ogni giorno qualcuno in più. Le persone arrivavano, aspettavano il proprio turno, poi entravano in quella cabina e prendevano la cornetta in mano. Per parlare insieme a chi non riuscivano proprio a lasciar andare. Coetanei di vita per un tempo. Morti in età avanzata o troppo giovani. Di malattia, tragedia, catastrofe naturale, assurdità, disperazione.
Non riusciamo ad abituarci mai e preferiamo quasi sempre una morte diversa da quella ci tocca da vicino. Non riusciamo ad arrivare preparati e mai pronti. Eppure lo sappiamo che è l’unica cosa certa, lo sappiamo da sempre. La frase è pure finita dentro un fastidioso detto popolare.
Ma nonostante tutto, c’è chi è disposto a fare chilometri per entrare in una cabina e prendere in mano un telefono rotto. Poter dire ancora qualcosa, magari quella frase rimasta appesa chissà dove e chissà perché. Non sai mai quand’è l’ultimo respiro di tempo disponibile. 
Salutare, ringraziare, maledire, chiedere. Raccontare che ce l’abbiamo fatta oppure che non troviamo la forza per andare avanti. A volte si resta muti, nudi insieme alla propria fragilità, come orfani abbandonati, nessuna età esclusa. In silenzio, come statuine immobili, con un telefono in mano vicino all’orecchio. Affidando al vento tutto quel che resta. 
albiabba@libero.it