Fermo immagine di Alberto Abbà

Hotel Silence

Voglio scegliere il posto dove finire i libri che mi si stampano dentro. Lo sai ben prima della fine quelli che resteranno. Per questo appuntamento un bicchiere di rosso e due taralli, sopra ad un tavolo di legno. La vineria dentro è deserta perché sono tutti fuori, fra dehors e marciapiede. Un sorso, un morso, una pagina. Un sorso, un morso, un altro giro pagina. Fino alla mano destra che richiude. L’eco delle ultime parole sul retro copertina, che ti ricorda chi è Jonas, che adesso conosci così bene, con quel suo talento per aggiustare le cose. Un viaggio il suo, dall’Islanda ad un luogo di morte come sono tutti quelli dove arriva la guerra. Un viaggio per finirla lì. E invece la vita che non t’aspetti, come quei fiori che ti chiedi come facciano a nascere sulle rocce o in mezzo all’asfalto. Come quella cicatrice a forma di ninfea.
Il posto giusto per un biglietto di sola andata con quel bagaglio a mano fatto di trapano e attrezzi.
“Mi chiedevo se non potesse insegnarmi a ballare” dice lui, che ripensa alla mamma che diceva che quando il latrato delle armi cessa, la gente sente il bisogno di ballare e andare al cinema.
Così lei prova a insegnargli “lei mette la mano qui e io mi tengo a lei qui, lei fa un passo avanti e io un passo indietro e dopo io faccio un passo avanti e lei uno indietro”. “Così?” fa lui. “Si”, dice lei “è come camminare”. Pensieri, fra le mine. 
Il libro sul tavolo, il bicchiere vuoto. Il nome dell’autrice non si può imparare.
Ma si può ricordare l’indirizzo di quell’Hotel, le storie che intorno hanno preso luce, fra acqua rossa dai rubinetti, vecchi mosaici, piatti unici, donne sole e bambini assordati dalle bombe, fra pastelli neri e scoperta dei colori. Sentire il profumo dell’erba dopo tutto quel dolore. 
Resta la vita e una casetta degli attrezzi che tutto può aggiustare o niente.