Da tempo si dibatte sul restauro e la riqualificazione del moderno. Edifici di grande qualità si confrontano con una progressiva inadeguatezza tecnologica, funzionale e energetica. Ma quando parliamo di “eccellenze” non si tratta in realtà di un vero problema. Come interveniamo su un edificio medioevale o barocco possiamo farlo su un capolavoro del ‘900.
Il paesaggio urbano e extraurbano è invece pesantemente segnato da diffusi interventi edilizi della seconda metà del secolo scorso di qualità architettonica e ambientale molto discutibile, alle volte veri e propri scempi. E visto che spesso su queste colonne parliamo di montagna, non possiamo non considerare che in ambiente montano il fenomeno è particolarmente rilevante.
Confessiamolo, tutti noi di fronte a certe presenze devastanti abbiamo una istintiva, immediata e un po’ superficiale reazione: “bisognerebbe demolire tutto”!
Aldilà della loro palese irrealizzabilità, questi propositi sono però a mio avviso ingenerosi, se non presuntuosi.
La maggior parte di questi interventi sono stati realizzati nei decenni tra il ’50 e l’80. In seguito non si è fatto magari tanto di meglio, ma obbedendo a diversi pensieri e logiche. Stiamo parlando di anni in cui non era ancora diffuso il concetto di rapporto cosciente con l’ambiente costruito che si è successivamente consolidato, anni tragici in cui la cultura e la coscienza del buon costruire tradizionale, sia da parte dei progettisti che dei committenti, aveva perso terreno rispetto all’innamoramento acritico nei confronti di nuove tecniche e materiali, spesso non ancora sufficientemente collaudati e che soprattutto stentavano a trovare forme coerenti.
Ma le vere ragioni da comprendere e rispettare sono di ordine sociologico e culturale, soprattutto per gli interventi in ambito rurale e montano. Il dopoguerra è stato segnato da una svolta nel livello di vita, dal lasciarsi alle spalle un’epoca di miseria, di difficile sostentamento, di fatica che caratterizzavano il quotidiano rapporto con la campagna o la montagna di molti dei nostri nonni. In questa rivoluzione di vita è del tutto comprensibile la volontà di segnare il distacco da un retaggio e da una storia di difficoltà, evidenziandolo con forme architettoniche il più possibile lontane dai linguaggi della tradizione, volontà spesso tradita dalla mancanza di progettisti capaci di interpretarla, e che oltre che sulla residenza hanno trovato attuazione in spazi e edifici pubblici.
Non possiamo però dimenticare che quegli edifici sono il frutto di caparbio impegno, di lavoro e sacrificio, che in molti casi hanno permesso continuità di vita in ambienti difficili e ne hanno limitato l’abbandono, garantendone la sopravvivenza, e di conseguenza meritano rispetto.
Dal rispetto dovrebbe essere improntato il necessario intervento di riqualificazione. Un rispetto che diventi omaggio alla volontà di costruzione, di presenza nel territorio e nella struttura sociale di almeno una generazione.
Indubbiamente molte lacerazioni del paesaggio vanno ricucite, molti elementi puntuali che ne impediscono una corretta percezione globale corretti, ma il peggior insulto che si potrebbe fare a un’epoca significativa nella storia del territorio, oltre che alla nostra intelligenza e alla cultura che dovremmo nel frattempo aver acquisito, sarebbe il trasformare quegli edifici in farsesche riproduzioni di architetture montane idealizzate e storicamente inesistenti, di “finte baite” da baraccone da fiera, fenomeno al quale purtroppo non è raro assistere.
La via da seguire per la rivisitazione di quel momento della storia recente del costruire, è diversa, e deve ristabilire un tramite con la tradizione costruttiva del luogo e con la cultura dei materiali con un linguaggio coerente che utilizzi in chiave contemporanea ma rispettosa degli equilibri dell’architettura tradizionale pochi e semplici elementi e materiali.