Il Paesaggio

Tracce che nei secoli si modificano


La definizione di paesaggio è molto complessa, e, come tutte le definizioni complesse, se affrontata con semplicismo scade facilmente nella banalizzazione e nel fraintendimento.
Fra tutte le definizioni possibili, da quella di veduta a quella di valore da salvaguardare, ce n’è una che ritengo molto appropriata.
Il paesaggio è una traccia della continuità della storia, sia per quanto riguarda le porzioni di territorio trasformate dall’azione umana (dall’agricoltura o dall’allevamento, dalle opere stradali o difensive, dall’industria o dagli insediamenti abitativi), sia per quanto riguarda zone rimaste vergini, la cui percezione e attribuzione di valori estetici e culturali si è evoluta nei secoli con le nostre sensibilità, lasciando tracce indelebili nel nostro sentire.
Il paesaggio ha la caratteristica di vivere in perenne contemporaneità, sia per l’esistere attraverso la nostra percezione che per l’essere costantemente oggetto di interventi e atti di vita che lo modificano.
Ho letto anni fa in un articolo di Yoshinobu Ashihara, architetto giapponese conosciuto per le sue realizzazioni per le olimpiadi di Tokyo del ‘64, illuminanti pensieri sull’evoluzione della città giapponese, che si sviluppa privilegiando le connessioni a reti sempre nuove a scapito dell’immagine urbana consolidata, e quella della città europea che privilegia la conservazione dell’immagine percepita ad un adeguamento a strutture che consentano una sempre nuova efficienza.
Il paesaggio è sempre stato improntato da ricerca di efficacia e economia, specie quello rurale e alpino, in cui le risorse sono più scarse e le esigenze più specifiche. 
La trasformazione del territorio, permanente o stagionale, è sempre il risultato di disponibilità e necessità. I muri degli edifici erano realizzati con le pietre ricavate dal dissodamento dei pascoli, posti a una distanza che derivava dalla lunghezza dei tronchi dei Larici recuperabili nell’area, messi in opera a una distanza conseguente alla dimensione delle lose cavabili nell’intorno. In termini di sincerità e economia dell’uso dei materiali e secondo tecniche in continua progressiva evoluzione.
I ricoveri stagionali e le tracce del passaggio degli animali che disegnano i prati in quota sono l’inevitabile conseguenza dei percorsi che permettono lo sfruttamento dei pascoli durante la stagione dell’alpeggio. Un’occupazione rinnovata ogni anno, seguendo tracce ataviche che sopravvivono nel racconto che ne trasmette le informazioni e ne affida la continuità da una generazione all’altra.
Come le “vie dei canti” degli aborigeni, che con il canto rituale ritrovano sacralmente percorsi arcaici nel deserto, descritte da Bruce Chatwin.
Tracce che nei secoli si modificano, seguendo le sorgenti o la creazione di nuove vie di accesso, come i termini del rapporto che lega l’uomo alla montagna, che non può non evolversi.
Da sempre la storia dell’intervento dell’uomo sull’ambiente e sul paesaggio è stata evolutiva. Necessariamente l’evoluzione tecnologica era lenta e graduale. L’introduzione di nuove tecniche era progressiva, e ogni passo superava ma non rinnegava gli stadi precedenti. Ogni epoca usava nel migliore dei modi tecniche e risorse a disposizione per soddisfare le esigenze del momento, senza guardarsi indietro. 
Nel secondo dopoguerra si è creata una frattura. La combinazione di abbandono della montagna, nuova disponibilità economica e introduzione di nuove tecniche costruttive ha prodotto esiti spesso devastanti. Si è verificato un “vuoto di consapevolezza” della posizione del momento nel processo evolutivo.
Una mancanza di coscienza e conoscenza del passato e del presente che purtroppo perdura, con le sue conseguenze drammatiche. Una presuntuosa ignoranza, che non ha nulla a che fare con la cultura tradizionale di chi non ha avuto possibilità di accedere all’istruzione, coltiva ridicoli modelli estetici e architettonici da baraccone da fiera. Bravi artigiani mortificano le loro capacità manuali esercitandosi nello scolpire ingenue stelle alpine su travi di legno industriali o producendo ad arte intonaci e lavorazioni di pietre dall’aspetto “rustico”, incontrando i favori di una committenza rimbambita che vive in un perenne Carnevale.
Il risultato sulle trasformazioni del paesaggio delle nostre valli è il rinnegare secoli di consapevole evoluzione, trasformandole in una brutta copia di Alpi trentine per turisti di bocca buona.
Il punto critico sembra essere la mancanza di una conoscenza delle tecniche e dello “spirito” che hanno impregnato la costruzione degli insediamenti e del paesaggio che ci circonda.
Esempi illustri, come quello dell’architetto Renato Maurino, ci mostrano come da una conoscenza dei processi costruttivi tradizionali e delle loro ragioni si possa passare a un’architettura sinceramente contemporanea, consapevole del proprio ruolo in un processo evolutivo continuo. In alcuni casi una giovane imprenditoria edile, “formata e informata”, lascia spazi di ottimismo, con la sua capacità di dialogo e di tramite tra la sapienza d’uso dei materiali della tradizione e il pensiero architettonico e le esigenze della contemporaneità.
Come Enrico Boerio, artefice di essenziali bivacchi in quota, o Fabrizio Ferrero, architetto di formazione e imprenditore edile di professione, esecutore degli ultimi interventi di Renato Maurino. Una apertura verso il futuro che ci lascia una speranza per la continuità della cultura del costruire.
Il problema sembra essere sia quello della formazione e della competenza degli attori delle trasformazioni del costruito e del paesaggio che quello della mancanza di una cultura del significato profondo ed esteso dei segni architettonici e paesaggistici storici che ci circondano.
In questo senso l’azione di alcune istituzioni ed associazioni ha una potenziale efficacia di gran lunga superiore a qualunque prescrizione che intenda normare le trasformazioni del paesaggio.
 “Lhi Mestres”, a Frassino, in Val Varaita, attraverso il lavoro delle colleghe Barbara Martino e Enrica Paseri e del regista Fredo Valla, si innesta sul ceppo di una tradizione locale di costruttori, che dai muri di pietra della valle sono storicamente finiti con la loro sapienza a costruire quartieri di Parigi, e promuove lo studio e la diffusione della conoscenza dell’architettura alpina tradizionale, delle sue radici e delle sue motivazioni costruttive e ambientali. Un lavoro di attenta documentazione, di raccolta, catalogazione e esposizione di materiale d’archivio e soprattutto di incontri e visite nel corso dei quali sviluppare un “racconto”  e far “entrare” un pubblico anche non nello spirito e nella vera natura del paesaggio e del costruito, squarciando il velo del folclorismo che troppo spesso li avvolge, e riportandoli nella loro dimensione reale, nel tempo e nella vita.    
E non a caso, ritengo, Barbara Martino, Enrica Paseri e Fredo Valla, nei loro rispettivi settori di azione, sono interpreti della più coerente contemporaneità.